Israel Start-Up Nation, Chris Froome: “Quando ho iniziato si andava a tentativi, mentre ora i giovani che entrano nello sport trovano una struttura che prima non esisteva”

Da poco più di una settimana si è chiusa l’annata 2021 di Chris Froome. Il corridore della Israel Start-Up Nation ha completato la sua prima stagione nella formazione israeliana, la seconda dopo il terribile incidente del giugno 2019, in seguito al quale il 36enne non è ancora riuscito a tornare ai livelli e alle prestazioni di un tempo. Nonostante un’annata priva di risultati, comunque, il keniano bianco ha di recente confermato di non avere intenzione di appendere la bici al chiodo, puntando a continuare a lavorare per recuperare dall’infortunio di due anni e mezzo fa. Un recupero che il vincitore di quattro Tour de France ha raccontato in una lunga intervista apparsa sul canale Youtube di Wiggle, nel quale ha parlato anche dei suoi inizi in Kenya, dell’approccio al ciclismo delle nuove generazioni e degli obiettivi futuri.

“Credo che crescere in Kenya sia stata una sorta di benedizione – ha esordito Froome – Ho vissuto la bicicletta con la semplice idea di stare all’aperto divertendomi. Per me era più un mezzo di trasporto per potermi muovere per andare a trovare amici o esplorare nuovi posti. Non aveva nulla a che fare con le corse o la competizione. Non la vivevo così seriamente, aveva poco a che fare con l’allenamento o cose simili. La componente competitiva in Kenya è quasi inesistente, quando ero piccolo c’erano solamente un paio di corse all’anno”.

“Sono entrato in questo sport abbastanza tardi – ha proseguito l’ex Sky/Ineos – Dalla mountain bike sono passato all’attività su strada a circa 17/18 anni. Andavo a scuola in Sud Africa, dove avevo alcuni amici che correvano su strada e che mi hanno introdotto al ciclismo su strada, mostrandomi per la prima volta il lato competitivo dello sport. Solo a quell’età ho iniziato ad allenarmi in modo appropriato cercando di lavorare sul mio fisico e la mia forma e cercando di ottenere risultati sempre migliori“.

Un approccio al ciclismo diverso dunque da quello dei tanti giovani che approdano ora al professionismo: “Se ripenso a quando ho iniziato, noi salivamo semplicemente sulla bici e pedalavamo senza sapere esattamente cosa stessimo facendo. Si andava più a tentativi, mentre adesso i giovani che entrano nello sport trovano una struttura che prima non necessariamente esisteva. Quindi penso che questo aiuti questa nuova generazione di giovani corridori che vediamo in cima alle classifiche e che diventano professionisti a 19, 20 o 21 anni e arrivano subito al top. Abbiamo visto ragazzi come Pogacar e Bernal vincere il Tour de France a soli 21/22 anni. Se me l’avessero detto cinque anni fa avrei pensato che fosse impossibile. Eppure vediamo questi giovani talenti emergere proprio perché si sono allenati così bene per cinque o sei anni fin da quando erano ragazzi. Diventano professionisti e sono subiti in grado di battere i migliori al mondo, è abbastanza incredibile”.

Una nuova generazione di fenomeni che, quindi, ha beneficiato anche di un approccio più scientifico al ciclismo; per Froome, però, si può fare ancora un ulteriore step nei prossimi anni: “Penso che un nuovo parametro in grado di rivoluzionare lo sport sarà quello relativo alla misurazione del livello di zuccheri nel sangue. Una tecnologia di questo tipo esiste da tempo per le persone affette da diabete, ma non necessariamente per corridori ai massimi livelli degli sport professionistici. È un campo che ha enormi margini, come poteva esserlo 15 o 20 anni fa quello relativo alla misurazione della potenza. Penso che questo sarà un campo che crescerà a dismisura nei prossimi anni. Diventerà sempre più importante nei massimi livelli dello sport”.

Ovviamente, il 36enne ha parlato anche del suo incidente al Giro del Delfinato 2019: “È stato un incidente piuttosto orrendo, non avevo mai avuto niente del genere nella mia carriera. Mi sono fratturato il femore in due punti, mi sono fratturato un gomito, lo sterno, anche alcune vertebre, ero messo male. Ho avuto anche una lacerazione abbastanza profonda. C’erano diversi punti interrogativi sul fatto che sarei tornato al ciclismo professionistico o meno, ma ricordo solo che il primo giorno dopo l’incidente mi sono svegliato in terapia intensiva e un chirurgo è venuto da me e ha detto ‘sono tutti infortuni da cui puoi riprenderti’. Da quel momento avevo un obiettivo, lavorare sodo e approcciarsi alla riabilitazione allo stesso modo in cui faccio i miei allenamenti per tornare alle corse professionistiche. Sono tornato, non sono ancora al mio livello, ma ci sto ancora lavorando, quindi spero di arrivarci”.

Il recupero dopo l’infortunio è stato un processo lungo per il keniano bianco: “L’infortunio alla gamba è stato quello più grave. L’intero processo consisteva nel cercare di tornare ad avere equilibrio tra la mia gamba sinistra e la mia gamba destra, quindi ci sono stati molti test che ho fatto fuori dalla bici, e poi ovviamente anche una volta tornato in bici, usando un misuratore di potenza che mostrasse la potenza della gamba sinistra rispetto a quella destra in tempo reale mentre mi allenavo. Tornare ad avere forza alla pari tra le due gambe mi ha preso un anno e mezzo-due anni. All’inizio di quest’anno sono riuscito a tornare al livello che avevo prima riguardo alla simmetria tra le due gambe, è stato un risultato enorme”.

L’obiettivo, ora, è quello di tornare ad alzare le braccia al cielo, magari in una gara di un giorno, dove il corridore della Israel Start-Up Nation non è quasi mai riuscito a rendere al meglio: “Quella che mi viene in mente è la Clasica San Sebastain. Non ho mai fatto molto nelle corse di un giorno, ma prima che la mia carriera finisca mi piacerebbe poter ottenere un risultato in queste gare. Questa è una gara dove potenzialmente potrei farcela”.

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